Cosa c’è dentro un gomitolo?
Tutto quello che la fascetta del filato racconta e che spesso non leggiamo
La fascetta del filato, sul gomitolo o sulla matassa, può diventare una preziosa fonte di informazioni.
Ci sono ovviamente informazioni che leggiamo ed elaboriamo direttamente: il nome del filato e del marchio (obbligatori); il colore; la composizione (obbligatoria); il peso condizionato, cioè quello cui si fa riferimento per la determinazione del prezzo (attenzione! È il peso ad avere valore legale, non la lunghezza, ed è obbligatorio); indicazioni in merito alla tensione consigliata (campione 10x10cm e ferri o uncinetto più indicati); indicazioni per la manutenzione e il lavaggio dei capi realizzati con il filato stesso.
Si tratta di caratteristiche legate alla qualità attesa e misurabile del filato che vogliamo acquistare: attesa perché, per esempio, per un dato progetto ci aspettiamo che un filato si comporti in un certo modo (per esempio una percentuale di seta garantisce un certo drappeggio oppure un determinato spessore ci dà la tensione giusta per quel particolare punto o design); misurabile perché possiamo verificare direttamente se il filato possiede queste caratteristiche, per esempio facendo il campione.
La fascetta può contenere però anche altre informazioni che (per me, almeno) sono legate al concetto di qualità e che hanno a che fare con caratteristiche che non si vedono a occhio nudo. Vi illustro in breve di cosa si tratta.
Premetto che vengo di una vita precedente (prima del Gomitolo dietro l’Angolo) in cui mi sono occupata per vent’anni di standard di qualità, ambiente e igiene alimentare e il mio occhio è abituato a puntarsi su questi aspetti, spero di essere sempre comprensibile.
La dicitura Made in Italy non garantisce un prodotto 100% fatto in Italia o con tutta fibra italiana, perché per i regolamenti vigenti è sufficiente che l’ultima fase della produzione sia fatta in Italia per poter apporre la dicitura. Si tratta di un vuoto normativo che viene sfruttato anche nella produzione alimentare.

Il lotto (lo trovate anche come bagno, batch o lot): nel caso dei filati identifica una partita di filato omogeneo tinta con la stessa miscela di colorante (per esempio 30kg di filato dello stesso tipo). Di solito si cambia il lotto ad ogni cambio della miscela di colore.
Attenzione però: attraverso il LOTTO, quando il produttore mantiene questi dati in modo costante, è anche possibile risalire alla tracciabilità del prodotto/filato.
Il criterio è lo stesso che, per i prodotti alimentari, è obbligatorio da circa venti anni: per ogni lotto/partita di prodotto, il produttore è in grado di ricostruire la storia di quello specifico filato, delle fibre e degli eventuali coloranti, coadiuvanti o prodotti che sono stati usati nel processo produttivo, fino all’allevamento di origine per le fibre animali o terreno di coltivazione per le fibre vegetali.
Quando la filiera del prodotto viene registrata da tutti gli operatori (chi alleva, chi tinge, chi fa i gomitoli o le matasse, ecc.), se richiesto o se ritenuto opportuno il prodotto può essere certificato a fronte di STANDARD di prodotto o di processo: produzione biologica, tutela del benessere animale, merino proveniente da pratiche senza mulesing, fibre vegetali non ogm, solo per fare qualche esempio.


Alcuni esempi dei loghi che identificano le diverse certificazioni le trovate nelle foto. È ovvio che per ogni tipo di filato è possibile apporre sulla fascetta solo i marchi per cui esiste una certificazione sul filato stesso (per esempio non posso mettere il marchio GOTS su filati non biologici e che non sono stati sottoposti a certificazione GOTS). Cercate i marchi sulle fascette e guardate cosa significano!

E adesso, due grandi MA: mentre tracciabilità e certificazioni diventano fondamentali per noi consumatori nel momento in cui decidiamo di orientare le nostre scelte di acquisto verso prodotti sostenibili o biologici o etici, nel mondo dei tessili e dei filati la tracciabilità è ancora una scelta che il produttore adotta su base volontaria oppure su esplicita richiesta di clienti, anche perché gestire questi sistemi di tracciabilità e mantenere uno o più certificati in vigore, con visite di sorveglianza e rilascio periodici, ha un costo non banale (per esempio, nello stabilimento di Sesia ci spiegavano che in azienda ci sono due persone che si occupano esclusivamente di questo). L’altro lato della medaglia è che in campo tessile si effettuano, per quello che ricade sotto le mie conoscenze, da parte degli Organi di Controllo, pochi controlli volti a rilevare le errate diciture sulle fascette o etichette.
Quindi, cosa possiamo fare noi spacciatrici/tori di filati e voi consumatrici/tori di filati nel momento in cui decidiamo di comprare gomitoli che rispondano alla nostra sensibilità, al nostro stile di vita, alle nostre scelte etiche ed economiche e ambientali o semplicemente al nostro bisogno di misurare la qualità che non si vede con gli occhi? È una domanda complessa e la risposta lo è di più, perché può avere a che fare con la nostra disponibilità economica, con fattori legati alla distanza o alla reperibilità, con i gusti o le problematiche di chi indosserà i capi.
Da consumatrice: per quello che riguarda gli alimenti e la spesa di casa, ho scelto di fidarmi di prodotti alimentari per i quali conosco le basi e i criteri su cui vengono fatti i controlli. Parlando di filati, non mi è sempre possibile agire in questo modo, perché non sempre trovo le informazioni che cerco: alcuni brand hanno i loro certificati di conformità caricati sul loro sito, insieme alla politica della qualità, altri no. Quando trovo quello che cerco sono molto contenta; quando non lo trovo, chiedo e quando trovo le risposte, sono più tranquilla. Se proprio non trovo nulla, divento diffidente e chiedo di nuovo.
Da commerciante: sono consapevole che questo argomento non sia interessante o significativo per tutti e cerco di trovare un giusto compromesso, per i prodotti che assortisco in negozio, parlando tanto con gli agenti e cercando di ricevere e dare informazioni il più possibile complete.
Non mi sento rivoluzionaria, credo solo che consumare in modo responsabile non sia più una scelta, ma una necessità da un bel po’ di tempo (sapete che il 16 maggio è stato l’Overshoot day italiano? Se tutto il mondo consumasse quanto l’Italia, tutte le risorse del mondo sarebbero finite il 16 maggio), non solo per questioni ambientali ma anche economiche.
Come per quello che mangiamo, quindi, penso che sia importante imparare a leggere l’etichetta e a documentarsi su quello che ci dice, per diventare consumatrici/tori più consapevoli e soddisfatte/i di quello che produciamo con le nostre mani.
Buon lavoro!