Japanese Knitting – una chiacchierata informale sul mondo della “maglia giapponese” – 2° parte

(Venerdì 14 ottobre, in una diretta Zoom con Valentina Cosciani, si è parlato della storia del lavoro a maglia in Giappone e del mondo della “maglia giapponese in generale. Quello che segue è un riassunto, quanto più possibile esaustivo, di quanto si è detto nella serata. A Valentina il compito di parlarci di quello che solitamente intendiamo per “maglia giapponese”)

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una vera e propria mania per ciò che gira intorno alla cultura giapponese e il mondo della maglia non resta indietro. Pubblicazioni di japanese knitting sono reperibili su tante piattaforme, Amazon in primis, già nella pratica traduzione inglese: il termine “Japanese Knitting”, utilizzato anche nei titoli e nelle didascalie, è una chiave di ricerca molto usata da knitters di tutta Italia e non solo.

Sfatiamo subito una credenza: la cosiddetta “maglia giapponese” non esiste. Oggi tendiamo ad identificare la “maglia giapponese” con quello stile di maglione non troppo lungo e di taglia unica oversize che è stato reso tanto popolare da alcune designer giapponesi e che è stato oggetto di ispirazione anche per tanti lavori qui in Occidente. In realtà, quello della taglia unica oversized è, appunto, uno stile, che ha le sue origini in due fattori: la diversa conformazione fisica delle donne orientali, in media più esili e minute di noi europee e con meno forme rispetto al nostro tipo mediterraneo e il canone estetico della bellezza femminile, che in Estremo Oriente passa anche attraverso le linee filiformi e la magrezza. (n.d.r. – non si tratta di una esclusiva della cultura orientale: in tutto il mondo culture e nazionalità diverse idealizzano la donna in modi diversi, da più a meno formose o alte o truccate, ecc.) Da questo canone estetico è quindi derivato, negli ultimi anni, il modello oversize destrutturato e in taglia unica, oppure sviluppato in due o tre taglie che però non hanno grandi differenze tra loro nelle misure. Insomma, se siete una taglia L europea difficilmente entrerete in una L cinese o giapponese o coreana.

Ci sono però due aspetti che possono, in qualche modo, identificare la “maglia giapponese”, al di là delle tendenze.

Il primo è dato dalla cura e dal “significato” che un capo fatto a mano ha nella cultura giapponese. Il dono di qualcosa lavorato ai ferri, a uncinetto, ricamato, cucito, dipinto, ha un grande valore per chi dà e per chi riceve. Il “fatto a mano” è sempre sinonimo di bellezza, di attenzione ai particolari, di dettagli, in un certo senso di dedizione a quello che si sta realizzando. Il secondo, non meno importante, è l’aspetto legato allo studio e al valore concettuale – intellettuale – del progetto. La ricerca e lo studio sulle linee e sui materiali, la rivisitazione di punti e motivi e tecniche mutuati da altri paesi, la raffinatezza dei dettagli, lo studio del colore, sono la vera caratteristica che contraddistingue i modelli e il gusto giapponese. Le linee dei capi spaziano con disinvoltura dalla tradizione alla sperimentazione più spinta, i punti e i motivi tipici della tradizione europea sono ripresi e reinterpretati in disegni e motivi spesso complicati, ma sempre molto raffinati. Tra i marchi che ben spiegano questa peculiarità possiamo citare ITO con i suoi filati creati con seta e cashmere ma anche con fibra metallica e conchiglia, per esempio; o NORO, con la sua ricerca di matericità e colori; per lo stile, le pubblicazioni della casa editrice Nihon Vogue: basta fare una ricerca in rete delle copertine della rivista “Keito Dama” per vedere con gli occhi che la maglia giapponese esiste, sì, ma non si ferma alle linee decostruite di un maglione.

Questa differenza di approccio si vede anche nel diverso modo in cui sono redatti istruzioni e schemi dei pattern. Se nella maglia occidentale i modelli sono per lo più “parlati”, descritti, raccontati, i designer giapponesi schematizzano tutto il capo in un disegno e in poche linee grafiche su cui sono indicati anche numeri e misure. Approcciare per la prima volta un pattern di un progetto giapponese, al di là delle ovvie difficoltà legate alla lingua, può risultare ostico proprio perché la rappresentazione grafica delle istruzioni può risultare abbastanza distante dal nostro modo di concepire uno schema (nota mia: mi spiace non avere tenuto gli screenshot e le foto di tutte le interessanti immagini che Valentina ha portato durante la lezione, perché erano davvero molto esplicative).

Per avere ben chiare queste differenze, libri e riviste – e il solito ravelry.com ci vengono in aiuto.

[Ringrazio tantissimo Valentina Cosciani per la serata, per il tempo messo a disposizione, per tutte le informazioni e nozioni che hanno trasformato una chicchierata informale in una vera e propria lezione.]

Bibliografia e sitografia di riferimento

Il sito della casa editrice Nihon Vogue: https://www.nihonvogue.co.jp/en/service/publications/

La pagina raverly di Nihon Vogue: https://www.ravelry.com/patterns/sources/nihon-vogue-ravelry-store

Un numero della rivista Keito Dama, reperibile su AbeBooks: https://www.abebooks.com/9784529052078/Japanese-Craft-Book-Wool-Keito-4529052079/plp

La pagina Amazon dei libri di Hitomi Shida, a iniziare da Japanese Stitch Bible: https://www.amazon.it/Libri-Hitomi-Shida/s?rh=n%3A411663031%2Cp_27%3AHitomi+Shida

(Nella foto di apertura Valentina Cosciani con Ortensia, il modello presentato durante il workshop dello scorso 1 ottobre.)